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Un soggiorno a Bombay
(racconto di Carola Benni)

   

Arrivai all’aeroporto di Bombay che era ormai sera tardi.  Avevo viaggiato tutta la notte e il giorno in treno, proveniente da Benares.  L’indomani ci doveva essere il volo della Iraqi Airways per Milano, via Baghdad.  Ero in possesso di un preziosissimo biglietto di andata e ritorno, la prima tratta l’avevo utilizzata cinque mesi prima.

 Dopo che Giuseppe ed io avevamo deciso di separare le nostre strade ed io ero ripartita dal Nepal, avevo passato una decina di giorni a Benares con il denaro che ci eravamo divisi al momento di lasciarci.

Era fine giugno, in piena stagione monsonica:  caldo, umido, piogge scroscianti e senza fine, scarafaggi dappertutto.  In India i viaggi  in treno sono interminabili, a causa delle enormi distanze e della lentezza dei convogli.  La notte avevo dormito sul predellino dei bagagli, naturalmente in uno scompartimento riservato alle donne.  Mi ero risvegliata la mattina alla stazione di Laknau, nello stato del Bihar, con un poliziotto che mi osservava.  Ne era  seguìto un tira e molla perché lui voleva ispezionare a tutti i costi una piccola borsetta che io avevo appesa al polso.  Mi minacciò di portarmi al posto di polizia e io gli dissi “bene, sono pronta, andiamo!”  La verità era che sperava di ottenere qualche rupia in elargizione: un “bakshish”.  Aveva scelto bene la sua vittima, perché in realtà, oltre alle poche rupie che mi erano rimaste, effettivamente nella borsetta c’era anche un bel pezzetto di hashish che mi ero riportata dal Nepal, più che altro da riportare in regalo in Italia.  Comunque alla fine non ebbe l’ardire di attuare le sue minacce, e se ne andò.  Le donne indiane che erano con me nello scompartimento avevano assistito mute  e attonite alla scena.  Per tutto il resto del viaggio non fecero altro che fissarmi con curiosità. 

Arrivata dunque a Bombay, passai la notte in aeroporto, sognando di fare amicizia con qualche facoltoso arabo che potesse aiutarmi.  La mattina dopo, all’apertura degli uffici, mi confermarono che i voli per Milano  erano tutti strapieni per settimane, e che per quel giorno non c’era stata nessuna cancellazione.  Non mi erano rimaste che poche rupie, non avendo previsto tale situazione.  Cominciai a pensare e a lambiccarmi il cervello sul da fare, girovagando qua e là per l’aeroporto.  Vicino all’uscita dei bagni, mi cadde lo sguardo su una grande targa di bronzo affissa su una colonna.  Cristo Santo!  Non credevo ai miei occhi, il destino mi stava presentando di prepotenza la soluzione a cui non avevo pensato.  Si trattava di una targa commemorativa di un premio commerciale, patrocinato dal governo di Malta, assegnato a una certa ditta di Bombay che io ben conoscevo.  Io stessa ne avevo accolto il rappresentante alla Valletta, due o tre anni prima, in quanto, fino a questo mio viaggio, avevo lavorato come segretaria in una agenzia milanese di pubbliche relazioni, che si occupava tra l’altro dell’organizzazione di questo evento.  In quella prima edizione del premio avevo conosciuto Atul, un giovane e avvenente indiano con il quale avevo fatto amicizia.  Eravamo persino andati al casinò della Valletta e avevamo vinto $100 alla roulette.  Si sarebbe ricordato di me?  Cerco il numero dell’azienda sull’elenco telefonico, lo trovo, chiamo e chiedo di lui.   “Atul?”  “Si?”  “Sono Carola Benni, sono qui all’aeroporto di Bombay, non so se ti ricordi di me?!”  “Carola! Ma certo che mi ricordo di te!”  e, dopo avergli spiegato la situazione:   “Rimani lì, vengo subito a prenderti!”

Io naturalmente ero vestita quasi di stracci, cioè di quegli indumenti  “comodi” che si portano in India dopo che uno ha viaggiato dappertutto per cinque mesi.  Però il mio bagaglio l’avevo, con dentro qualcosa di decente, come un vestitino lungo, azzurro a fiorellini.  Ormai mi sembrava  di gran lusso.

Atul arrivò con la sua FIAT 1100, modello degli anni ’60.  Era sempre un bel ragazzo, alto, slanciato, elegante, con dei bellissimi occhi e dei modi molto gentili e garbati.  Fu molto entusiasta di vedermi., e mentre mi conduceva all’Oberoi  Sheraton di Bombay, non smise mai di sorridere mostrando i denti bianchissimi che spiccavano sulla pelle ambrata.  “Carola, non dovrai preoccuparti di nulla.  Vedrai che risolveremo il problema entro pochi giorni”.  “Tu credi?  Ma… lo Sheraton…  mi sembra un po’ troppo…”  “Nessun pensiero:  il conto lo metto sulla carta di credito aziendale.  Se non troviamo un posto in aereo entro pochi giorni, potrai andare a stare nella nostra casa per gli ospiti, sempre qui a Bombay, sai è dove abitavamo prima con la mia famiglia.  Poi è diventata troppo piccola, ci siamo trasferiti in un quartiere residenziale.  In quella casa c’è un guardiano che si prenderà cura di te…  ti preparerà anche da mangiare,”  e, dandomi un’occhiata allusiva: “…ne hai bisogno!”.  Infatti, negli ultimi tempi, a causa di un disturbo intestinale, ero dimagrita molto, e non avevo più neanche l’ombra di appetito.

La mia stanza allo Sheraton aveva la moquette celeste:  dopo mesi di alberghetti prima, e quasi delle capanne poi, questa mi sembrava una reggia imperiale.  Atul mi lasciò con la promessa di tornare più tardi a prendermi per andare a cena insieme:  “fai un bel bagno, rilassati e fatti bella!”  Se ne andò dopo avermi fatto una carezza, e mi disse che ero sempre bella, anche con i chili in meno. 

Sprofondando nella vasca traboccante di soffice schiuma profumata, socchiusi gli occhi, ed il pensiero scivolò via, come un’entità autonoma, staccata dal mio essere, per andare a rivisitare i mesi appena passati…

Era il 1977.  Io avrei preferito il Messico per il nostro viaggio esotico, ma Giuseppe mi aveva convinto ad andare a oriente, in India.

Dunque, eravamo partiti per l’India  con 1.000 dollari in travellers cheques.  Era una bella cifra in rupie indiane!

Avevamo viaggiato, da Goa a Ceylon, dove eravamo rimasti quasi un mese:  ricordo come, arrivando in autobus dal porto di Colombo alla nostra destinazione, mi investì improvviso tutto quel verde.  Verde, verde, verde.  La prima volta ai tropici, Goa era stata nulla a confronto.  Incontrammo molti italiani, numerosi persi per sempre, viaggiavano da un anno o due; parecchi erano anche i tedeschi, altri inglesi.  Poi ritornammo in India con il traghetto e viaggiammo lungo la costa orientale, da Pondichery e Madras a Calcutta, da Calcutta a Darjeeling, in montagna, dove sono le coltivazioni di thé, fermandoci in piccoli centri sull’oceano.  Poi da Darjeeling avevamo preso un autobus che ci aveva condotti a Khatmandu, in Nepal.  Quest’ultimo fu un viaggio caratterizzato da panorami meravigliosi, attraverso la natura più bella che abbia mai visto.  Montagne irraggiungibili e a perdita d’occhio, vallate di sogno, alberi secolari, enormi, di tutti i tipi.  La notte facemmo tappa in un piccolo villaggio.  Nella locanda dove sostammo non c’era elettricità, e le candele che ci avevano dato si curvavano per il gran calore.  La gente dormì sui tetti delle case.  Io preferii soffrire nel letto, ma al riparo della zanzariera.  Quando il giorno dopo arrivammo a Khatmandu e ci  sistemammo in una “guest-house”, la prima doccia calda dopo quasi quattro mesi mi fece piangere di piacere.  In questo i nepalesi erano senz’altro più organizzati degli indiani…

 

(…continua…)

 

135, Finchley Road
(racconto di Carola Benni)

Christopher Lee era un’eredità lasciatami da un mio ex inquilino.  Se n’era andato con la scusa che doveva andare ad assistere suo padre malato, ma ben presto, capii che era fuggito da questo ospite onnipresente che ormai era passato a ruolo di boy-friend invadente e ormai stantìo di cui non riusciva a liberarsi.  

Certo il suo nome faceva pensare a Dracula il Vampiro (l’interprete dei films degli anni ’60), ma Chris era cinese.  Nella vita faceva il parrucchiere, tuttavia la sua aspirazione sarebbe stata quella di diventare un ballerino di danza classica;  anche per questo lo avevamo soprannominato “Nijinski”.  Spesso si metteva a ballare e cantare, a volte mimando davanti allo schermo televisivo le mosse di un ballerino o un cantante lirico, impedendomi di vedere.  A volte si truccava e si  travestiva in modo drammatico.  Credo che soffrisse molto a causa della classica crisi d’identità di chi è nato uomo e non sa decidersi a fare il vero salto e passare chirurgicamente al sesso opposto.  A quel tempo c’era già la possibilità in Inghilterra di cambiare sesso a scopo terapeutico.  Facevamo comunque lunghi discorsi a sfondo filosofico, ed io lo stavo ad ascoltare, un po’ perché non sempre quello che diceva era sconclusionato, e un po’ perché non volevo essere sgarbata, e quindi lo sopportavo.  

Non avevo capito quanto era fuori di testa fino al giorno in cui, tornando dal lavoro, man mano che salivo su per le scale  sentivo, sempre più chiaramente, una cantilena che sembrava venire da casa mia. 

A Londra molti appartamenti sono ricavati da vecchie case padronali per cui tutti gli ambienti (camere, bagno, cucina) danno su ciascun pianerottolo, senza avere quindi una propria porta d’ingresso.

 Io però abitavo all’ultimo piano, avevo due camere, un bagno e cucina.  La mia stanza era molto tranquilla e dava su un enorme spazio verde, interno, che poi non era altro che l’insieme di tanti giardini sul retro di case, alcune molto eleganti.  Il mio stipendio di allora ancora non mi permetteva di sostenere da sola la spesa di un appartamento al centro di Londra, ed ecco perché nella stanza attigua, più spaziosa della mia, si era avvicendata una serie di personaggi, uomini o donne, di varie razze, culture e connotati sessuali.  Una volta mi era capitato un transessuale australiano, ma non l’avevo capito subito che un tempo era stato un uomo…  comunque era una tipa normalissima, quasi anonima.  Piccolina, leggermente cicciottella, bionda tinta con i capelli a caschetto.  La stanza la teneva come base a Londra e quindi era spesso assente, viaggiando spesso per lavoro (faceva l’entraîneuse nei locali notturni).  Durante una delle sue assenze venne a Londra un mio caro amico di Roma che doveva restare un po’ di tempo.  Io lo feci sistemare nella stanza di Tracy, e quando lei tornò dormirono insieme…  Non gli ho mai chiesto, né lui me ne ha mai parlato, anche parecchi anni dopo, come era andata, cioè se si era accorto…  Avevano…  ce l’aveva ancora il pisello oppure…  In quel periodo il mio scaldabagno era guasto e il padrone di casa Said, in attesa di ripararlo, mi aveva dato le chiavi dell’appartamento del piano terra (l’unico con una sua porta d’ingresso) perché potessi lavarmi con l’acqua calda.  Questo era un bell’appartamento, e c’era anche un telefono, funzionante, ma con lucchetto.  Un giorno ebbi una brillante idea:  smontai con le pinze il quadrante e lo sostituii con quello del mio telefono, così Stefano ed io passavamo le serate a fare interminabili telefonate in Italia a tutti gli amici e parenti.  Said non accennò mai alla bolletta che doveva aver ricevuto;  infatti, non avrà mai capito come diavolo era potuto succedere tutto ciò…  Said comunque era molto benestante e non ebbi mai rimorsi.

Quando Tracy se ne andò mi regalò una coppia di asciugamani, uno arancione e uno marrone, ricamati rispettivamente con “Adam” e “Eve”.  Ancora li ho; dopo oltre 20 anni li uso per asciugarmi i capelli quando mi faccio la tinta (è rossa), così si mimetizzano le macchie.

Il motivo dell’avvicendarsi di questa varietà di gente nel mio appartamento era dovuto al mio vicino del piano di sotto, Costas.  Costas era di origine greca e faceva il ballerino fantasista di professione.  Lavorava cioè nei locali notturni con veri e propri ingaggi, e viaggiava spesso all’estero.  Credo che facesse il suo numero insieme a una donna;  dovevano essere degli spettacoli a sfondo sessuale, ma non proprio espliciti.  Io a Costas  ero affezionata, forse perché era del segno della bilancia come me, comunque lui era sempre ospitale, cordiale e sorridente, un buon vicino di casa.  Era gay, ma so che era stato anche sposato in passato.  Bruno, con un magnifico sorriso, bei capelli neri e corpo flessuoso, in casa portava spesso un paio di fuseau di lurex;  quando scendevo da lui c’era sempre una serie di ospiti di varia natura, alcuni dei quali si fermavano per settimane.

Quel giorno dunque, arrivando sul mio pianerottolo, trovo il buio.  La porta del bagno era socchiusa, e, oltre al canticchiare, ne usciva un vago chiarore misto a vapore.  Feci capolino:  Chris era immerso fino al collo nella vasca letteralmente traboccante d’acqua.  Dappertutto, candele accese.  Noncurante, continuava la sua nenia.  Più tardi, mentre ero in cucina rimuginando sulla situazione, pensando che forse era un po’ scosso dall’abbandono del suo boy-friend, Nijinski riemerse dal bagno e si piazzò, completamente nudo e gocciolante, sul pianerottolo.  Rimase lì un bel po’ di tempo, fissando un poster di fate e gnomi che era appeso sulla parete, senza dire una parola.

Nei giorni seguenti le stranezze continuarono, tanto che, preoccupata, rintracciai il mio ex inquilino, quello che me l’aveva lasciato in eredità.  L’ex inquilino venne a visitarlo.  Dopo un po’ di tempo uscì, assicurando che andava a chiamare il dottore, poi  sarebbe andato a fare la spesa e sarebbe tornato.  Non torno mai più.  Arrivò, invece, un’assistente sociale che Chris accolse come se fosse una vecchia amica.  La chiamò persino per nome “Julie!  Come stai! Vieni, vieni pure dentro”.  E chiuse la porta.   Non passarono nemmeno 5 minuti che “Julie” uscì dalla stanza e mi chiese dov’era il telefono.  Doveva chiamare un’ambulanza.  Oggi mi chiedo se veramente la conoscesse, o se era parte della sua follia il fingere di conoscerla nel goffo tentativo di mascherare la realtà di quella visita.

Vennero due omaccioni e lo portarono via.  Ricordo ancora come lo accompagnavano giù per le scale e lui, Chris, che canticchiava  stringendo tra le braccia un orsacchiotto di peluche.

Nelle due settimane che seguirono andai a trovarlo qualche volta in ospedale.  I ragionamenti che faceva erano meno sconclusionati, meno folli, ma lui era fondamentalmente rimasto il Nijinski di sempre, con le sue dissertazioni un po’ trasognate, e i suoi progetti di grandezza.  “Sai Carola, quando torno a casa mi iscrivo a una scuola di danza, non voglio più fare il parrucchiere, con le mani sempre in testa a gente sconosciuta.  A volte sai i capelli dei clienti si trasformano e prendono forma a seconda del contenuto interiore del loro proprietario, a volta sembrano fiori, a volta vermi, a volte frecce, e io vorrei allora fuggire da queste brutture che ogni giorno devo maneggiare, rimodellare, come un novello profeta..” eccetera eccetera. 

L’assistente sociale, andandosene, aveva chiuso la porta della stanza dietro di sé, e portato via la chiave; evidentemente questa era la prassi, e fu inutile il tentativo di  spiegare che Chris in realtà si era autoproclamato lui mio inquilino.  Il pensiero del suo ritorno mi preoccupava, anche perché sapevo che non sarebbe stato in grado di pagarmi l’affitto…  Forse avrei dovuto fare qualcosa di drastico, quale sfondare la porta, cambiare la serratura, raccogliere le sue poche cose e mandargliele in ospedale, o mettergliele da parte.  Non lo feci.  

Mi svegliai di  soprassalto un sabato mattina.  A Finchley Road, come in qualsiasi altro appartamento, ho sempre dormito con la porta della mia stanza da letto socchiusa, anche se lì non avevo nessuna porta d’ingresso a mia protezione.  Effettivamente, in sette anni che ci abitai, non si verificò mai nessun problema, anche se sarebbe bastato che il portone d’ingresso su strada fosse lasciato aperto e qualcuno, introducendosi, fosse salito fino all’ultimo piano, o qualche ospite poco serio di altri inquilini fosse venuto su a curiosare.  

Qualcuno mi stava parlando, anche se dovevano essere le 7 o 7 ½ ed era SABATO!!  Era una testa bionda ossigenata che mi stava apostrofando attraverso la porta socchiusa:  “Ciao, senti, hai una sigaretta?”  “NO (ma chi cazzo è questo??)” e mi giro dall’altra parte coprendomi la testa.  “Senti, ma non sai se c’è un tabaccaio qui vicino?”   “A quest’ora? Ma senti, tu chi sei, ma non sai che ora è? Lasciami dormire!”  La testa bionda ossigenata  era implacabile:  “Sono Mario, sono un amico di Chris, sai, abbiamo fatto tardi ieri sera e siamo rimasti a chiacchierare tutta la notte, abbiamo finito le sigarette.  Ma tu sei italiana?  Sai, anch’io sono italiano, ma sono nato a Londra”.  Dio Santo, Chris era tornato, e si era rimorchiato uno più pazzo di lui.

Si erano conosciuti, infatti, in ospedale (la corsia neurologica, ovviamente).  Il giorno prima erano stati dimessi, ed erano andati a festeggiare in un locale per gente del tipo loro, poi erano tornati a casa insieme.  Da quel giorno non ebbi più pace: me li ritrovavo, più spesso Mario che Chris, in qualsiasi momento:  mentre facevo colazione, per esempio, che mi parlavano di extraterrestri e di mondi lontani, ed altri discorsi senza senso.  Chris era diventato più freddo, più cupo, forse perché gli avevo fatto capire chiaramente che non poteva rimanere più lì.  Mi stavano facendo impazzire.  Arrivai persino a pensare, seriamente, che il loro disegno era di farmi veramente perdere la ragione, per poi impadronirsi del campo.  Andai  al piano di sotto dal mio vicino Costas, e ne parlai con lui e il suo amico Pietro.  Pietro era italiano, infatti, che coincidenza, era il fratello di una mia compagna di scuola delle elementari, a cui assomigliava moltissimo, soprattutto gli occhi, che erano grandi e verdi.  Pietro era un bel ragazzo, che si proclamava etero-sessuale, ma poi venni a sapere certe cose da Costas… Pietro faceva il cameriere in un ristorante di lusso.  Venne su da me e parlò con i miei “inquilini”, invitandoli a non essere invadenti, e a  cercarsi un’altra sistemazione.  Mi sentii un pochino sollevata.  In realtà, essendo a Londra da meno di un anno, conoscevo poche persone, il che era anche il motivo per cui non avevo molta opportunità di dividere il “flat”, come poi avvenne in seguito, con persone più “normali”.

I giorni passavano.  Una notte, fui svegliata da tonfi e grida che venivano dal piano sottostante.  Mi affacciai dalle scale:  Costas stava ammazzando di botte Pietro, che rotolava sempre più giù, verso l’ingresso su strada.  Pietro piangeva, gridava e implorava, Costas era letteralmente fuori di sé, era una vera belva senza controllo, e, mentre si accaniva su Pietro, gli vomitava addosso appellativi irripetibili.  Mi spaventai perché sembrava davvero che il suo scopo fosse quello di ammazzarlo.  Mi contrapposi tra lui e Pietro, lo afferrai per le braccia cercando di calmarlo:  “Costas, calmati, per carità, qui va a finire male, ti prego, smettila…, ti prego…”  Sono convinta che quella notte salvai la vita a Pietro, il quale, se non fossi intervenuta, si sarebbe come minimo ritrovato per strada, in pigiama, con diverse ossa rotte, oltre che al naso sanguinante.

 Da qualche giorno nell’appartamento di Costas circolava una bellissima cinese, Kali.  Kali era nata in Australia, dove si erano stabiliti i suoi genitori.  Era un tipo timido, riservato, e dolcissima, molto disponibile.  Alta, dalla carnagione leggermente ambrata e i capelli mossi, parlava in un tono più basso del normale, e la sua voce sembrava come accarezzare e avvolgere l’interlocutore.  Spesso cucinava, era molto servizievole nei confronti di Costas, e comunque con chiunque altro.  Facevano gli spettacoli insieme.  Avevo notato che per essere una donna aveva i piedi molto grandi:  insomma, come al solito, non avevo capito subito che Kali era un ex-uomo, ora una donna con tutti gli attributi giusti.  Era stata lei la causa involontaria del dramma svoltosi quella notte:  in qualche modo Pietro, spinto da gelosia sotterranea, aveva provocato Costas fino all’esasperazione.  Anche a Kali mi affezionai, era una bellissima persona, e so che negli anni che seguirono cercò più volte, senza successo, di staccarsi da quella vita notturna  ed effimera, che era la sola cosa che alla fine poteva fare senza incorrere nelle difficoltà e nelle situazioni amare che si devono presentare nella vita reale ad una persona della sua natura.

Una sera avevo cucinato la pasta con il sugo alle melanzane, e ne avevo portato un piatto a Jaime, che abitava nel piano seminterrato.  Jaime era spagnolo, e da qualche tempo era molto malato, credo avesse la leucemia.  Quella sera mi regalo’ una bellissima spilla déco con delle pietre di smalto rosso che oggi mi ricordano di lui ogni volta che la indosso.  Avevamo chiacchierato un po’, lui mi aveva fatto sentire la sua ultima composizione alla chitarra.  Tornata a casa, mi resi conto che i miei “inquilini” erano in casa, e bussai alla porta, chiedendo a Chris, ancora una volta, di pagarmi gli arretrati dell’affitto che mi doveva ormai da molto tempo.  Chris aprì la porta.  Mario era stravaccato sul divano, in posa strafottente.  Sul pavimento erano stati collocati dei lumini intorno a una ciotola d’acqua  nella quale galleggiavano dei fiorellini rosa.  Li guardai meglio e mi resi conto che erano i fiori della mia violetta africana.  Sul bordo del caminetto notai una sciabola, che non avevo mai visto prima.  Mi chiesi da dove venisse.  Seguì una conversazione spiacevole e irritante.  Frustrata, scesi da Costas per sfogarmi con qualcuno.

Da Costas c’era un’allegra combriccola di argentini, gente “normale”, chissà da dove venivano?   Uno di loro, dopo aver ascoltato il mio racconto, si offrì di salire lui a dare una lezione a quei tipi.  “Non ti preoccupare, adesso ci penso io, ma guarda un po’ se è possibile una cosa simile!  A te serve qualcuno che ti difende, non puoi andare avanti così!”  Gli argentini, si sa, sono sempre un po’ “intraprendenti”.  Andò, ma poco dopo sentimmo un trambusto e, affacciandoci, vedemmo l’argentino che si precipitava giù per le scale inseguito da un Chris inferocito che agitava, minaccioso, la sciabola.

Chiamai la polizia.  

I due poliziotti, ai quali avevo illustrato la situazione al loro arrivo giù all’ingresso su strada, vennero su con me, spiegandomi che in realtà non avrebbero potuto buttarlo fuori, in quanto inquilino (ahimè!), ma lo avrebbero comunque diffidato dal causare disturbo.  Bussai alla porta:  “Chris?”  Per tutta risposta ricevetti un bel “fuck –off”.  A quel punto il poliziotto bussò lui stesso in modo imperioso “Apri amico, è la polizia!”  Seguì un interminabile silenzio, durante il quale non potei fare a meno di pensare “béccati questa”, poi la porta si aprì.

…continua…

 

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