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Un soggiorno a Bombay
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135, Finchley Road |
(racconto di Carola Benni) |
Christopher
Lee era un’eredità lasciatami da un mio ex inquilino. Se n’era andato con la scusa che doveva andare ad assistere
suo padre malato, ma ben presto, capii che era fuggito da questo ospite
onnipresente che ormai era passato a ruolo di boy-friend invadente e ormai
stantìo di cui non riusciva a liberarsi.
Certo
il suo nome faceva pensare a Dracula il Vampiro (l’interprete dei films
degli anni ’60), ma Chris era cinese.
Nella vita faceva il parrucchiere, tuttavia la sua aspirazione
sarebbe stata quella di diventare un ballerino di danza classica;
anche per questo lo avevamo soprannominato “Nijinski”.
Spesso si metteva a ballare e cantare, a volte mimando davanti allo
schermo televisivo le mosse di un ballerino o un cantante lirico,
impedendomi di vedere. A
volte si truccava e si travestiva
in modo drammatico. Credo che
soffrisse molto a causa della classica crisi d’identità di chi è nato
uomo e non sa decidersi a fare il vero salto e passare chirurgicamente al
sesso opposto. A quel tempo
c’era già la possibilità in Inghilterra di cambiare sesso a scopo
terapeutico. Facevamo
comunque lunghi discorsi a sfondo filosofico, ed io lo stavo ad ascoltare,
un po’ perché non sempre quello che diceva era sconclusionato, e un
po’ perché non volevo essere sgarbata, e quindi lo sopportavo.
Non
avevo capito quanto era fuori di testa fino al giorno in cui, tornando dal
lavoro, man mano che salivo su per le scale
sentivo, sempre più chiaramente, una cantilena che sembrava venire
da casa mia.
A
Londra molti appartamenti sono ricavati da vecchie case padronali per cui
tutti gli ambienti (camere, bagno, cucina) danno su ciascun pianerottolo,
senza avere quindi una propria porta d’ingresso.
Io
però abitavo all’ultimo piano, avevo due camere, un bagno e cucina.
La mia stanza era molto tranquilla e dava su un enorme spazio
verde, interno, che poi non era altro che l’insieme di tanti giardini
sul retro di case, alcune molto eleganti. Il mio stipendio di allora ancora non mi permetteva di
sostenere da sola la spesa di un appartamento al centro di Londra, ed ecco
perché nella stanza attigua, più spaziosa della mia, si era avvicendata
una serie di personaggi, uomini o donne, di varie razze, culture e
connotati sessuali. Una volta
mi era capitato un transessuale australiano, ma non l’avevo capito
subito che un tempo era stato un uomo…
comunque era una tipa normalissima, quasi anonima.
Piccolina, leggermente cicciottella, bionda tinta con i capelli a
caschetto. La stanza la teneva come base a Londra e quindi era spesso
assente, viaggiando spesso per lavoro (faceva l’entraîneuse nei locali
notturni). Durante una delle
sue assenze venne a Londra un mio caro amico di Roma che doveva restare un
po’ di tempo. Io lo feci
sistemare nella stanza di Tracy, e quando lei tornò dormirono insieme…
Non gli ho mai chiesto, né lui me ne ha mai parlato, anche
parecchi anni dopo, come era andata, cioè se si era accorto…
Avevano… ce
l’aveva ancora il pisello oppure…
In quel periodo il mio scaldabagno era guasto e il padrone di casa
Said, in attesa di ripararlo, mi aveva dato le chiavi dell’appartamento
del piano terra (l’unico con una sua porta d’ingresso) perché potessi
lavarmi con l’acqua calda. Questo
era un bell’appartamento, e c’era anche un telefono, funzionante, ma
con lucchetto. Un giorno ebbi una brillante idea: smontai con le pinze il quadrante e lo sostituii con quello
del mio telefono, così Stefano ed io passavamo le serate a fare
interminabili telefonate in Italia a tutti gli amici e parenti. Said non accennò mai alla bolletta che doveva aver ricevuto;
infatti, non avrà mai capito come diavolo era potuto succedere
tutto ciò… Said comunque
era molto benestante e non ebbi mai rimorsi.
Quando
Tracy se ne andò mi regalò una coppia di asciugamani, uno arancione e
uno marrone, ricamati rispettivamente con “Adam” e “Eve”.
Ancora li ho; dopo oltre 20 anni li uso per asciugarmi i capelli
quando mi faccio la tinta (è rossa), così si mimetizzano le macchie.
Il
motivo dell’avvicendarsi di questa varietà di gente nel mio
appartamento era dovuto al mio vicino del piano di sotto, Costas.
Costas era di origine greca e faceva il ballerino fantasista di
professione. Lavorava cioè
nei locali notturni con veri e propri ingaggi, e viaggiava spesso
all’estero. Credo che
facesse il suo numero insieme a una donna;
dovevano essere degli spettacoli a sfondo sessuale, ma non proprio
espliciti. Io a Costas
ero affezionata, forse perché era del segno della bilancia come
me, comunque lui era sempre ospitale, cordiale e sorridente, un buon
vicino di casa. Era gay, ma
so che era stato anche sposato in passato.
Bruno, con un magnifico sorriso, bei capelli neri e corpo
flessuoso, in casa portava spesso un paio di fuseau di lurex;
quando scendevo da lui c’era sempre una serie di ospiti di varia
natura, alcuni dei quali si fermavano per settimane.
Quel giorno dunque, arrivando sul mio pianerottolo, trovo il buio. La porta del bagno era socchiusa, e, oltre al canticchiare, ne usciva un vago chiarore misto a vapore. Feci capolino: Chris era immerso fino al collo nella vasca letteralmente traboccante d’acqua. Dappertutto, candele accese. Noncurante, continuava la sua nenia. Più tardi, mentre ero in cucina rimuginando sulla situazione, pensando che forse era un po’ scosso dall’abbandono del suo boy-friend, Nijinski riemerse dal bagno e si piazzò, completamente nudo e gocciolante, sul pianerottolo. Rimase lì un bel po’ di tempo, fissando un poster di fate e gnomi che era appeso sulla parete, senza dire una parola.
Nei
giorni seguenti le stranezze continuarono, tanto che, preoccupata,
rintracciai il mio ex inquilino, quello che me l’aveva lasciato in
eredità. L’ex inquilino
venne a visitarlo. Dopo un
po’ di tempo uscì, assicurando che andava a chiamare il dottore, poi
sarebbe andato a fare la spesa e sarebbe tornato.
Non torno mai più. Arrivò, invece, un’assistente sociale che Chris accolse
come se fosse una vecchia amica. La
chiamò persino per nome “Julie! Come
stai! Vieni, vieni pure dentro”. E
chiuse la porta. Non
passarono nemmeno 5 minuti che “Julie” uscì dalla stanza e mi chiese
dov’era il telefono. Doveva
chiamare un’ambulanza. Oggi
mi chiedo se veramente la conoscesse, o se era parte della sua follia il
fingere di conoscerla nel goffo tentativo di mascherare la realtà di
quella visita.
Vennero
due omaccioni e lo portarono via. Ricordo
ancora come lo accompagnavano giù per le scale e lui, Chris, che
canticchiava stringendo tra
le braccia un orsacchiotto di peluche.
Nelle
due settimane che seguirono andai a trovarlo qualche volta in ospedale.
I ragionamenti che faceva erano meno sconclusionati, meno folli, ma
lui era fondamentalmente rimasto il Nijinski di sempre, con le sue
dissertazioni un po’ trasognate, e i suoi progetti di grandezza.
“Sai Carola, quando torno a casa mi iscrivo a una scuola di
danza, non voglio più fare il parrucchiere, con le mani sempre in testa a
gente sconosciuta. A volte
sai i capelli dei clienti si trasformano e prendono forma a seconda del
contenuto interiore del loro proprietario, a volta sembrano fiori, a volta
vermi, a volte frecce, e io vorrei allora fuggire da queste brutture che
ogni giorno devo maneggiare, rimodellare, come un novello profeta..”
eccetera eccetera.
L’assistente
sociale, andandosene, aveva chiuso la porta della stanza dietro di sé, e
portato via la chiave; evidentemente questa era la prassi, e fu inutile il
tentativo di spiegare che
Chris in realtà si era autoproclamato lui mio inquilino. Il pensiero del suo ritorno mi preoccupava, anche perché
sapevo che non sarebbe stato in grado di pagarmi l’affitto… Forse avrei dovuto fare qualcosa di drastico, quale sfondare
la porta, cambiare la serratura, raccogliere le sue poche cose e
mandargliele in ospedale, o mettergliele da parte.
Non lo feci.
Mi
svegliai di soprassalto un
sabato mattina. A Finchley Road, come in qualsiasi altro appartamento, ho sempre dormito con la porta
della mia stanza da letto socchiusa, anche se lì non avevo nessuna porta
d’ingresso a mia protezione. Effettivamente,
in sette anni che ci abitai, non si verificò mai nessun problema, anche
se sarebbe bastato che il portone d’ingresso su strada fosse lasciato
aperto e qualcuno, introducendosi, fosse salito fino all’ultimo piano, o
qualche ospite poco serio di altri inquilini fosse venuto su a curiosare.
Qualcuno
mi stava parlando, anche se dovevano essere le 7 o 7 ½ ed era SABATO!!
Era una testa bionda ossigenata che mi stava apostrofando
attraverso la porta socchiusa: “Ciao,
senti, hai una sigaretta?” “NO
(ma chi cazzo è questo??)” e mi giro dall’altra parte coprendomi la
testa. “Senti, ma non sai
se c’è un tabaccaio qui vicino?”
“A quest’ora? Ma senti, tu chi sei, ma non sai che ora è?
Lasciami dormire!” La testa
bionda ossigenata era
implacabile: “Sono Mario, sono un amico di Chris, sai, abbiamo fatto
tardi ieri sera e siamo rimasti a chiacchierare tutta la notte, abbiamo
finito le sigarette. Ma tu
sei italiana? Sai, anch’io
sono italiano, ma sono nato a Londra”.
Dio Santo, Chris era tornato, e si era rimorchiato uno più pazzo
di lui.
Si
erano conosciuti, infatti, in ospedale (la corsia neurologica,
ovviamente). Il giorno prima
erano stati dimessi, ed erano andati a festeggiare in un locale per gente
del tipo loro, poi erano tornati a casa insieme.
Da quel giorno non ebbi più pace: me li ritrovavo, più spesso
Mario che Chris, in qualsiasi momento:
mentre facevo colazione, per esempio, che mi parlavano di
extraterrestri e di mondi lontani, ed altri discorsi senza senso.
Chris era diventato più freddo, più cupo, forse perché gli avevo
fatto capire chiaramente che non poteva rimanere più lì.
Mi stavano facendo impazzire.
Arrivai persino a pensare, seriamente, che il loro disegno era di
farmi veramente perdere la ragione, per poi impadronirsi del campo. Andai al piano
di sotto dal mio vicino Costas, e ne parlai con lui e il suo amico Pietro.
Pietro era italiano, infatti, che coincidenza, era il fratello di
una mia compagna di scuola delle elementari, a cui assomigliava
moltissimo, soprattutto gli occhi, che erano grandi e verdi.
Pietro era un bel ragazzo, che si proclamava etero-sessuale, ma poi
venni a sapere certe cose da Costas… Pietro faceva il cameriere in un
ristorante di lusso. Venne su da me e parlò con i miei “inquilini”,
invitandoli a non essere invadenti, e a
cercarsi un’altra sistemazione.
Mi sentii un pochino sollevata.
In realtà, essendo a Londra da meno di un anno, conoscevo poche
persone, il che era anche il motivo per cui non avevo molta opportunità
di dividere il “flat”, come poi avvenne in seguito, con persone più
“normali”.
I
giorni passavano. Una notte,
fui svegliata da tonfi e grida che venivano dal piano sottostante. Mi affacciai dalle scale:
Costas stava ammazzando di botte Pietro, che rotolava sempre più
giù, verso l’ingresso su strada. Pietro
piangeva, gridava e implorava, Costas era letteralmente fuori di sé, era
una vera belva senza controllo, e, mentre si accaniva su Pietro, gli
vomitava addosso appellativi irripetibili.
Mi spaventai perché sembrava davvero che il suo scopo fosse quello
di ammazzarlo. Mi contrapposi
tra lui e Pietro, lo afferrai per le braccia cercando di calmarlo:
“Costas, calmati, per carità, qui va a finire male, ti prego,
smettila…, ti prego…” Sono
convinta che quella notte salvai la vita a Pietro, il quale, se non fossi
intervenuta, si sarebbe come minimo ritrovato per strada, in pigiama, con
diverse ossa rotte, oltre che al naso sanguinante.
Una sera avevo cucinato la pasta con il sugo alle melanzane, e ne avevo portato un piatto a Jaime, che abitava nel piano seminterrato. Jaime era spagnolo, e da qualche tempo era molto malato, credo avesse la leucemia. Quella sera mi regalo’ una bellissima spilla déco con delle pietre di smalto rosso che oggi mi ricordano di lui ogni volta che la indosso. Avevamo chiacchierato un po’, lui mi aveva fatto sentire la sua ultima composizione alla chitarra. Tornata a casa, mi resi conto che i miei “inquilini” erano in casa, e bussai alla porta, chiedendo a Chris, ancora una volta, di pagarmi gli arretrati dell’affitto che mi doveva ormai da molto tempo. Chris aprì la porta. Mario era stravaccato sul divano, in posa strafottente. Sul pavimento erano stati collocati dei lumini intorno a una ciotola d’acqua nella quale galleggiavano dei fiorellini rosa. Li guardai meglio e mi resi conto che erano i fiori della mia violetta africana. Sul bordo del caminetto notai una sciabola, che non avevo mai visto prima. Mi chiesi da dove venisse. Seguì una conversazione spiacevole e irritante. Frustrata, scesi da Costas per sfogarmi con qualcuno.
Da
Costas c’era un’allegra combriccola di argentini, gente “normale”,
chissà da dove venivano? Uno
di loro, dopo aver ascoltato il mio racconto, si offrì di salire lui a
dare una lezione a quei tipi. “Non
ti preoccupare, adesso ci penso io, ma guarda un po’ se è possibile una
cosa simile! A te serve
qualcuno che ti difende, non puoi andare avanti così!”
Gli argentini, si sa, sono sempre un po’ “intraprendenti”.
Andò, ma poco dopo sentimmo un trambusto e, affacciandoci, vedemmo
l’argentino che si precipitava giù per le scale inseguito da un Chris
inferocito che agitava, minaccioso, la sciabola.
Chiamai
la polizia.
I
due poliziotti, ai quali avevo illustrato la situazione al loro arrivo giù
all’ingresso su strada, vennero su con me, spiegandomi che in realtà
non avrebbero potuto buttarlo fuori, in quanto inquilino (ahimè!), ma lo
avrebbero comunque diffidato dal causare disturbo.
Bussai alla porta: “Chris?”
Per tutta risposta ricevetti un bel “fuck –off”.
A quel punto il poliziotto bussò lui stesso in modo imperioso
“Apri amico, è la polizia!” Seguì
un interminabile silenzio, durante il quale non potei fare a meno di
pensare “béccati questa”, poi la porta si aprì.
…continua…